Crisi: resistenza e alternative. Una bozza di soluzione


Crisi: resistenza e alternative. Una bozza di soluzione

Traducción al italiano de un artículo disponible en esta misma web ¡Gracias a los compañeros de la FdCA!
José Luis Carretero Miramar è docente di Formazione ed Orientamento al Lavoro, milita nel sindacato Solidaridad Obrera ed è membro dell'Istituto di Scienze Economiche e dell'Autogestione (ICEA).
Artícolo pubblicato nella rivista "Trasversales", numero 24, autunno 2011.
[Castellano]
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Crisi: resistenza e alternative. Una bozza di soluzione


1. La crisi

Che stiamo vivendo una enorme crisi di civiltà è qualcosa che nessuno può mettere in discussione. La gigantesca bolla costruita intorno al mercato immobiliare ha finito per distruggere tutto nella sua implosione. Per colmare Il vuoto creatosi nei bilanci delle grandi imprese che avevano puntato sulla speculazione e sul credito per vedersi occlusa la crescita della redditività delle attività produttive a causa dell'ampliamento della contraddizione fondamentale tra lo sviluppo delle capacità ed i limiti al consumo all'interno di una società di classe, si è puntato su una accelerazione dell'impoverimento delle popolazioni.
Un impoverimento che assume i contorni di quei piani di aggiustamento strutturale enormemente regressivi che, a somiglianza di quelli implementati in America Latina negli anni '90, provocano una maggiore contrazione economica ed una nuova riduzione dei consumi interni, impedendo qualsiasi recupero, però rendendo possibile che la ricchezza estratta venga utilizzata per mascherare la “contabilità creativa” delle istituzioni finanziarie.
Piani di aggiustamento che, in Spagna, si sono delineati come la sommatoria di tutta una serie di misure estremamente aggressive contro la classe lavoratrice: le riforme del lavoro più radicali degli ultimi decenni; una riforma delle pensioni che promette miseria tanto per gli anziani che per le generazioni più giovani; una riforma della contrattazione collettiva che ha sfondato numerose linee rosse le quali si credevano invalicabili in base alla Costituzione; una riforma della Carta Magna [1] (considerata la pietra miliare intoccabile del regime dalla Transición [2]) per proteggere sia gli interessi dei creditori del debito pubblico spagnolo sia la politica di aggiustamento; e, inoltre, tutto un insieme di modifiche legislative minori che, dalla riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici alla privatizzazione delle imprese pubbliche, stannno generando un crollo senza precedenti del nostro modello sociale insieme alla scomparsa del nostro, seppur mai sviluppato del tutto, sistema di welfare.
Ma quando il fragore di questa battaglia diventa sempre più avvertibile, nonostante il silenzio complice dei mezzi di comunicazione di massa, ci sorge una domanda: cosa possiamo fare? E, soprattutto: che cosa vogliamo al posto di questa sarabanda di nuove sofferenze e di questo annunciato degrado della società?

2. La resistenza

Per costruire una alternativa a tutto questo casino, per organizzare la resistenza a questo Grande Saccheggio, a questo processo di accumulazione primitiva del prossimo modo di produzione sociale che si impone, dobbiamo tener conto che siamo di fronte a certe esigenze della realtà, davanti ad inevitabili necessità storiche.
Dobbiamo perseguire l'unità. Dove esistono gruppuscoli dispersi, fazioni e sette in tensione, dobbiamo ricostruire collegamenti e reti, la “socialità densa” ed il lavoro in comune, la fiducia ed il mutuo appoggio. L'unità di azione deve fondarsi sulla tolleranza ed il rispetto, non sulla imposizione di una qualche tesi contrastante. L'unità deve potersi esprimere sia a livello organizzativo che a livello culturale, nelle parole e nei fatti, nella articolazione di un discorso plurale che parta dall'esistenza di una situazione di urgenza e di un comune nemico, però anche da un patrimonio condiviso di tradizioni e di prassi.
Bisogna costruire una Grande Alleanza in una nuova ed ambiziosa dimensione che unisca tutti i settori colpiti dalla furia neoliberista: la classe lavoratrice (ovviamente), quella a posto fisso e quella precaria; le “zone grigie” del mercato del lavoro (piccoli lavoratori autonomi, studiosi, migranti, ecc.); così come tutti i settori della classe media d'impresa e professionale che vengono polverizzati e proletarizzati dalla crisi e dai piani di aggiustamento introdotti. Dobbiamo far sì che tutti i settori si rendano urgentemente consapevoli che abbiamo un nemico comune: il Grande Capitale transnazionale ed i suoi servi nei singoli stati, quelli che hanno usurpato la sovranità nazionale in nome dell'impoverimento.
Però c'è un'altra cosa (che dobbiamo dire) che deve essere chiara (e che interessa tutti i settori, pure quelli che non lo credono, come spiegherò più avanti): l'egemonia in questa Alleanza deve essere di pertinenza della classe lavoratrice. Vediamo di spiegarci. Diciamo “egemonia”, non “dittatura”. Ognuno deve essere libero di difendere e spiegare le sue posizioni e tutte le proposte devono essere discusse e valorizzate. E poi, se parliamo di “classe lavoratrice” non ci riferiamo a nessuna presunta “avanguardia”, più o meno autoproclamatasi, ma a tutte le sue componenti: le assemblee popolari servono a questo. Quello che vogliamo dire è che non solo è giusto che la maggioranza della società possa farsi ascoltare per la prima volta, ma anche che senza il coinvolgimento diretto di questa maggioranza, qualsiasi intento di cambiamento diventa un miraggio. Basti pensare a certe illusioni socialdemocratiche sulla “razionalità” del potere. Inoltre, va detto che la classe media non può reggere da sola a quello che sta accadendo, nemmeno ricorrendo ad un illusorio “fascismo paternalista dei negozianti”, cosa ormai impossibile di fronte alla integrazione transnazionale dei mercati avvenuta negli ultimi decenni. Ora è possibile solo il fascismo globale dei Fondi di Investimento e delle grandi aziende. Non c'è un “Duce” dei “piccoli proprietari” dietro l'angolo. La prossima disillusione sarà Rajoy. Si sa bene chi lo manda.
Inoltre, la situazione pone in questione l'attuale sistema. Non solo il sistema di accumulazione neoliberista, ma anche il sistema politico nato con la Transición. Son questi fattori che hanno segnato il campo del conflitto dando rango costituzionale al prelievo del debito. Il keynesismo (per non parlare del socialismo) è stato dichiarato incostituzionale. Non ha senso discutere di alternative inesistenti (utilizzando la Costituzione per trascenderla) con cui si è baloccata la sinistra parlamentare fino a poco tempo fa. Si impone, con tutta la sua crudezza, la apertura di un nuovo processo costituente. Una modifica radicale delle regole del gioco politico che metta fine alla “partitocrazia” legata al sistema e che apra nuovi spazi per la democrazia nel suo significato piò profondo: democrazia diretta, sistema di assemblee, partecipazione dei cittadini, sistema di garanzie e nessuna dittatura di una presunta maggioranza silenziosa costruita con l'uso ed abuso del finanziamento delle lobbies e dei mezzi di comunicazione di massa legati alle multinazionali.
E se ci viene chiesta maggiore concretezza su come uscire da questa crisi infernale, possiamo anche individuare misure di urgenza assoluta da implementare.

3. Un programma?

Quando parliamo di misure che si impongono nell'attualità e che vengano sostenute dalla Alleanza Sociale della Maggioranza, come proposto a suo tempo dall'Instituto de Ciencias Económicas y de la Autogestión (ICEA, www.iceautogestion.org) nei suoi documenti ad inizio crisi, possiamo suddividerle in tre grandi sezioni.
Misure riformiste. Si tratta di misure chiaramente keynesiane, con le quali cercare una riattivazione della crescita mediante uno stimolo pubblico basato su un sistema fiscale operativo e sulla regolazione dei mercati, sottraendoli al caos del più forte in base alle dottrine neoliberiste: parliamo di un aumento del salario minimo e del pubblico impiego; regolazione dei paradisi fiscali; tassazione delle transazioni finanziarie internazionali; recupero di un sistema fiscale basato sul principio del chi più ha più paga; costituzione di una banca pubblica e inversione dei processi di privatizzazione, controllo e ripudio del debito illegittimo ed odioso…”Nulla di terribile”, diranno i più rappresentativi cattedratici socialdemocratici: “la realtà lo esige. Il sietema stesso finirà per adottare queste misure”.
E' qui che sbagliano. Che la realtà lo esiga non vuol dire che lo imponga. Per questo c'è la lotta di classe. Questo strano motore della Storia che tutti pensavano nelle mani o in potere ad uno solo dei contendenti. Il sistema non è “razionale”. Se lo fosse, non saremmo giunti fino qui. Tutto è talmente intrecciato con tutto perchè i grandi finanzieri si scoprano un giorno keynesiani e ci riportino allo stupore del consumo per pura “razionalità”. Dovremo sollevarci. La lotta sociale è essenziale per il demiurgo della Storia. Solo se i bisogni vengono convertiti in enegia, se la ragione si tramuta in forza, i cambiamenti sono possibili. E questo ci riporta al problema della egemonia: solo se la classe lavoratrice nel suo complesso entra nella battaglia con decisione, si può avere qualche tipo di soluzione “razionale” (alla fine dopo tutto, parliamo di quello che è “razionale” per gli interessi della maggioranza, che il sistema degeneri o collassi è tanto “razionale” in astratto come qualsiasi altra cosa; tutti i sistemi lo fanno.) E, per intervenire, la classe lavoratrice avrà le sue esigenze. Questo ci porta alla successiva parte di misure.
Misure progressiste. Stiamo parlando di misure che esprimono questa egemonia proletaria nel corpo sociale, dunque non costituiscono una società senza classi: eliminazione delle ETT (Empresa de Trabajo Temporal, agenzie interinali, ndt) e dell'outsourcing, potenziamento delle assemblee popolari e dei meccanismi di cogestione aziendale, recupero autogestionario delle imprese in crisi, stimolo dell'impresa sociale e cooperativa, controllo delle assemblee popolari sui servizi pubblici di un welfare “socializzato”, inizio, in definitiva, della costruzione di un'altra economia per uscire dal capitalismo.
Si tratta della conformazione di un sistema dalle tinte popolari e sociali, stile certi paesi latinoamericani, il risveglio dopo la nottata degli aggiustamenti degli anni '90. Anche se, in virtù delle caratteristiche proprie della Spagna, con una comprensione molto più profonda e significativa dello spazio per la democrazia diretta. Un “capitalismo progressista” di transizione al “socialismo 3.0”? Forse. Ed è proprio questo il problema. Il che ci porta al terzo complesso di misure.
Misure di trasformazione. Non inganniamoci. Il processo di cui sopra (perchè si tratta di un processo: con i suoi alti e bassi, con i suoi passi in avanti e quelli indietro, con le sue incertezze, con le sue contraddizioni) non ci darà nulla di più del tempo. Un tempo, questo sì, prezioso. La crisi del capitalismo che abbiamo di fronte non è puntuale. Tutti i sistemi hanno una fine e tutto sta ad indicare che il collasso si avvicina a grandi passi. Il keynesismo ci salverà solamente per una stagione (ed è dubbio che possa riuscirci). Giusto quello che serve per confrontarsi con i limiti ecologici di un pianeta devastato dalla rapina neoliberista. Si impone la fine della crescita senza fine. Ed insieme, la fine del capitalismo come modo di produzione dell'Umanità.
Dovremo assumere la decrescita che verrà ed una nuova relazione con l'ambiente naturale, con tutte le sue conseguenze su aspetti come la pianificazione urbana, la alimentazione, i trasporti, ecc. E perchè questo non si converta in un collasso o in una minaccia brutale per tutta la specie, bisognerà generare meccanismi di democrazia diretta operativi e giusti che permettano di selezionare le modalità e l'intensità della decrescita nella prospettiva dei bisogni sociali coinvolti. Si tratta di una democrazia ampia, reale e diretta, non solo dal punto di vista politico ma anche economico, in cui gli esperimenti di autogestione, sovranità alimentare e sviluppo locale, devono diventare il perno della nuova società.
Non si tratta di una socializzazione forzata, e non stiamo nemmeno parlando, probabilmente, della fine della proprietà privata. Sí, forse, della fine del lavoro salariato, sostituito con la cooperazione dei liberi produttori (associati o no) in un corpo naturale in equilibrio e con un patrimonio di conoscenze ampiamente condiviso. Uno spazio dei beni comuni il quale, rispettando quei settori che (come la proprietà familiare contadina, il lavoro autonomo o la piccola impresa) vogliano sopravvivere con le proprie forze, impedisca lo sfruttamento ed i combattimenti feroci senza via d'uscita per le esaurite risorse dopo i secoli della devastazione capitalistica.
Forse lo vedremo. Forse no. Nulla sta scritto nelle stelle. Forse, come Corto Maltese, il personaggio dei fumetti di Hugo Pratt, dobbiamo dare una mano per poter dire un giorno: “Oggi ho fatto la mia fortuna”.
José Luis Carretero
Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali.


Note del traduttore
1. Costituzione spagnola, in vigore dal 1978.
2. Periodo di transizione dalla dittatura franchista alla monarchia costituzionale; secondo alcuni va dalla proclamazione di Juan Carlos come re di Spagna (1975) alla proclamazione della Costituzione (1978); secondo altri dalla morte di Franco (1975) al governo della Unión de Centro Democrático (1982), altri prolungano questo periodo fino all'ingresso della Spagna nella UE (1985/86); infine c'è chi lo fa cominciare con l'attentato a Carrero Blanco (1973) e finire col governo del Partido Popular (1996).

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